giovedì 30 aprile 2009

ASTRATTISMI

Allorchè si presentò, tra il XIX e XX secolo, il nuovo rilucente paesaggio della città industriale, alcuni artisti, più sensibili al cambiamento, ruppero violentemente col passato, dando al nuovo paesaggio la dignità di soggetto. La grande crisi generata dallo sviluppo della riproduzione fotografica, fece scoprire l'arte all'arte, non nella sua pseudo-falsa essenza di documentatrice storica, ma piuttosto di mezzo espressivo personale di un'artista. Le regole Classiche della composizione artistica saltano, e la composizione diviene sempre più incentrata su un nuovo modo critico di guardare al paesaggio, inteso nella sua inedita frammentarietà, discontinuità, episodicità, dinamicità. Se i dipinti divengono più semplici (e veloci) da realizzare (nasce l'"en plain air"), essi si caricano invece di più complessi significati, portati avanti dalla sensibilità dell'artista; se la realtà è il dato di partenza, gli artisti vi applicano una 'convenzione', realizzando l'opera d'arte. La solitaria figura di Cezanne assume un ruolo guida per i suoi colleghi, incentivando l'esternazione della propria personalità "dimenticando tutto quello che c'è stato prima". La necessità di prendere le distanze col passato, lo porta presto sulla strada dell'avanguardia, alla ricerca di un nuovo modo, coerente con la rivoluzione, di ricreare il volume, in una formalità costitutiva. Il nuovo sguardo dei pittori guarda alla realtà non più alla ricerca di una mimesi, ma di elementi, parti, atomi, individuati da un forte processo critico-analitico, che riduceva all'essenziale ogni episodicità, privandolo di risalto e dunque di una gerarchia. La realtà degli impressionisti è una realtà che deve essere penetrata (non rappresentata) per divenire una nuova natura, quasi metafisica. La "propria sensazione" dei pittori diviene la driving force delle opere, e Cezanne -come fa notare Alfonso Gatto- "ha l'estrema forma del suo informe". Come afferma il Prof. Saggio a lezione, "la nascita di un nuovo sguardo mette in crisi inanzitutto chi lo guarda" e non è un caso che c'è chi, nel 1903, sosteneva che appoggiare questo tipo di arte, sostenere queste "pazzie pittoriche", ovvero ammettendo l'artista Cezanne, "non rimane che dar fuoco al Louvre", in cui peraltro il pittore francese riconosceva "il luogo in cui impariamo a leggere". Paul Cezanne riesce a comprende la forza mistica che esplode dalle cose mute, dai tronchi e dalle rocce, dei quali sa conservare la purezza della sensazione. L'architettura di un Cezanne sarebbe forse un'architettura primitiva, realizzata pietra su pietra, senza piano preordinato e senza raffinamenti, in un'immagine immobile e senza articolazioni, che combatte il "circoscrivere i contorni con un tratto nero", errore che per lo stesso pittore è rifuggibile attraverso la natura. Semplicità ed astrazione del disegno sono un modo di controllare la complessità; se la realtà viene intesa come un tutt'uno complesso, la composizione astratta, consente di asciugarla e di attribuirle nuovi significati.
Il processo dell'astrazione comporta la perdita di validità dalle tipologie consuete e familiari, a cui la storia ci ha pigramente abituati. L'arrivo prorompente dell'informatica, implica l'astrazione: essa infatti nasce formalizzata in un mondo deduttivo, che risponde alla domanda What...If, giocando sulla minimizzazione del numero di istruzioni da eseguire per risolvere la questione. Il concetto di modello, che come sostiene Einstein è "un'astrazione selettiva della realtà", include al suo interno il processo di semplificazione rispetto agli elemeti strettamenti necessari per rappresentare vividamente la realtà. Tutte le scienze (uso il plurale!) che abbiamo oggi, partono da questi assunti di semplificazione, riconoscendo nello studio universale della realtà una complessità eccessiva da poter essere studiata e compresa. Mentre generalmente il modello allontana dalla realtà, in architettura oggi ha un effetto contrario: grazie all'IT l'immagine virtuale può divenire senza quasi intermediari oggetto (architettonico) concreto, a presa diretta. Oltre all'astrazione formale, oggi siamo in presenza, come ci segnalano lo studio giapponese SANAA in presenza anche di una 'esperienza della visione astratta', utilizzando del digitale, soltanto alcuni strutturanti caratteri linguistic: trasparenza, immaterialità, luminosità e gestione dei flussi.

I pensieri qui presentati sono stati sviluppati a partire dalla lezione del Prof Saggio del 18 marzo. Ascolta parte A>> parte B>>

Immagine: riflesso sui vetri del Dior Building, Omotesando, Tokyo, di SANAA

giovedì 23 aprile 2009

GIOTTO E IL TRECENTO

L'età "e grossa et inetta" di cui parla il Vasari nel suo "Le Vite" è ancora il Medioevo italiano, periodo in cui troviamo però l'eminente figura di Giotto di Bondone, cui egli attribuisce il merito di aver riscoperto, o meglio risuscitato, l'antico modo di fare bella arte. La mostra ospitata dal Complesso del Vittoriano a Roma, presenta una rassegna sul "più Sovrano Maestro stato in dipintura" che inquadra, con le 150 opere presenti, il periodo tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento. É indicativo come contemporaneo di Giotto fosse -tra gli altri- Dante Alighieri, il "sommo poeta" che condivide col pittore il titolo di "primo italiano", fatto quantomeno evidenziato dai loro continui viaggi che li porteranno a percorre da Nord a Sud tutta la penisola italiana, cui il testo del Vasari ne dà precisa rotta. La rivoluzione di Giotto viene ad emergere insieme al complesso programma iconografico, impostato su costruzioni spaziali scenografiche secondo lo spazio dell'architettura, i cui elementi vengono pensati e faticosamente riprodotti in prospettiva (malgrado la sua a-scientificità). La tecnologia aiuta la mostra nello svolgimento del suo programma: il Vittoriano voleva riproporre una raccolta delle opere tale da "ripercorrere nella sua interezza il percorso figurativo giottesco" a distanza di oltre settanta anni dall'ultima grande mostra su Giotto, allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937. É palese la difficoltà di articolare una mostra con abbia una sua completezza, per artisti come Giotto, che realizzano le proprie opere più importanti soprattutto come affreschi; per porre rimedio a tale gap, gli allestitori della mostra ricorrono alla tecnologia: sul corridoio del primo piano, essi impostano una decina di schermi che presentano gli affreschi -evidentemente di impossibile rimozione e trasporto- riempiendo quel vulnus rispetto a una parte del lavoro di Giotto. Purtroppo però i monitor non sono interattivi -come sono, devo dire inutilmente, quelli al piano inferiore che presentano le regioni italiane con le descrizioni delle opere giottesche- per cui il corridoio, sovraffollandosi a causa dell'attesa dei visitatori tra uno zoom e l'altro, ne penalizza l'esposizione.

Nel presentare di seguito un breve estratto di alcune opere presenti alla mostra, voglio precisare che esse sono state scelte non sulla base di una qualità strettamente connessa alle opere d'arte, come potrebbe fare uno storico dell'arte, ma piuttosto, secondo suggestioni personali evocate da tali opere. Da subito si percepisce una caratteristica comune: le figure sono tutte incorniciate. I limiti delle tavole inquadrano e dimensionano scalarmente le figure rappresentate al loro interno. Il pastoso blu dello zaffiro riempie delle sue tonalità i nostri occhi, non più abituati a un colore così deciso. In una saletta del primo piano sono stati collocati bellissimi manoscritti medievali, la cui superficie liscia e lucida (evidenziata dalle lampade fluorescenti che escono evidentemente dalla loro logica di creazione) si anima delle pieghe del tempo, come stanche di essere vicine l'une alle altre da ormai toppi secoli, gonfiandosi e separandosi, orgogliose delle propria magnifica autonomia. Tra tutti, colpisce la pagina del miniatore milanese Goffredo da Viterbo (Pantheon, del XIV secolo) in cui egli disegna figure che invadono liberamente lo spazio del testo, sgomitando le lettere latine nere e rosse. Ma è la sala grande a raccogliere le opere più belle: quasi tutte le figure sono in posa tre-quarti; il viso gira alla ricerca della rappresentazione di una tridimensionalità e spazialità, individuata attraverso la direzionalità del naso, che diventa l'elemento di rottura della frontalità. Il recto della lunga tavola di Giotto rappresentante "L'annunciazione tra i Santi Reparata, Giovanni Battista, Maria Maddalena, Nicola" del 1310, colpisce in un particolare: Santa Reparata è vestita di un morbido abito che cade cosciente della forza di gravità; questa veste color porpora stupisce però quando, nel suo scendere verso i piedi, incontra la piatta superficie del terreno, assumendo pieghe che ci vengono incontro abbattendo la distanza tra la Santa e noi.

La rappresentazione delle figure galleggia all'interno di un prezioso sfondo d'orato, realizzando una netta separazione, quasi un brusco accostamento, a tal punto che spesso è forte un senso moderno di decoupage! Salendo al piano superiore l'affresco staccato del crocifisso di Pietro (o Giuliano?) da Rimini del 1320-1330, porta i segni dei suoi secoli, realizzando però, inavvertitamente, qualcosa che stimola pensieri diversi. La figura del Cristo, così come oggi la vediamo, viene a fondersi con la tempera grigio-ocra dell'intonaco, dal quale, come tinta su tinta, emergono solo alcuni particolari, legando strettamemente il soggetto rappresentato e il suo supporto. La velatura generata dal drappo grigio del tempo, avvolge l'affresco consentendo comunque di intuire la figuratività dell'oggetto che ricopre. Più avanti poi, sempre in un affresco staccato, è divertente vedere un'architettura decostruttivista (si fa per dire ovviamente) attraverso un frammento dell'Orcagna (Andrea di Cione) tratto dai Mendicanti (del Trionfo della Morte, 1350), che rappresenta il crollo di una fabbrica, un istante dinamico congelato dalle pennellate dell'artista.

giovedì 9 aprile 2009

ARCHITECTURE À RÉACTION POÉTIQUE

Quando Le Corbusier, nelle sue case introduceva - oltre alla promenade architecturale - i famosi 'oggetti a reazione poetica', egli estrapolava selezionatamente dal mondo frammenti plastici, che poi traduceva in design. Un mondo che poteva essere quello della natura, piuttosto che quello della storia o ancora quello della macchina e della quotidianità, a cui appartenevano elementi scelti attraverso "occhi che sanno vedere". Una volta che Le Corbusier aveva soddisfatto le richieste funzionali dell'architettura, attraverso processi quasi normativi, egli faceva - come aveva appreso sull'acropoli di Atene - emergere dalla "standardizzazione" la sua personalità artistica, infondendo alle sue architetture quello che Zevi definisce un "geometrico palpito cosmico". Questi oggetti non dovevano semplicemente essere lì, ma suscitare una reazione; non
dovevano lasciare impassibili i fruitori, ma coinvolgerli in un sentimento, in un'emozione, che l'architetto svizzero definisce addirittura poetica. Se da un lato dunque c'è una visione dell'architettura come macchina che doveva per prima cosa funzionare bene, avvicinandosi a un lato più propriamente tecnico-scientifico, dall'altro lato, Le Corbusier - che era anche pittore e scultore - ci insegna che occorre imprimere all'architettura qualcosa di più, qualcosa che oggi potremmo definire una "informazione" in più, che egli legava ad alcuni oggetti particolari (ossa, conchiglie, foglie, rami, sassi, ecc.).

Per riportare il discorso ai giorni d'oggi, come afferma il Prof. Saggio, il dato "funziona bene" è un assunto imprescindibile che ormai si dà per scontato; quello che conferisce all'architettura (come anche ad altri campi) un plusvalore, è l'elemento informazione. La nuova architettura sta diventando nella sua interezza un object à réaction poétique, e l'intero processo progettuale, avanzato sull'informazione, deve costruire forme estetiche capaci di emozionare. Se per alcuni queste forme sono costituite dalla purezza dei solidi platonici, altri invece la individuano - come anche Le Corbusier nell'ultimo periodo della sua attività - in forme più libere e complesse che riescono ugualmente (o forse anche di più) a pizzicare quelle corde dei sentimenti che ci fanno emozionare. Come già sostenevo in un altro post, oggi ci stiamo avvicinando molto a quelli che per i Greci erano gli ideali di bellezza: la scultura greca era ritenuta più bella tanto più essa si avvicinava a simulare il reale - ricordiamo in proposito il celebre Grappolo d’uva di Apelle (IV secolo a.C.) che, a detta della diffusa aneddotica, era così simile al vero che “gli uccelli correvano a becchettarne gli acini”. Questo concetto di mimesis è trasportato oggi all'interno dell'in-formazione architettonica, tanto che troviamo (un nome per tutti: Calatrava) vere e proprie architetture che traggono origine da riflessioni su conchiglie, ossa ecc. Grazie all'information technology, la biologia entra ancora più potentemente nell'architettura, soprattutto nello studio dei suoi processi chimico-fisici, tanto che già si iniziano a vedere prodotti edifici sempre più simili a organismi, in un'estasi estetica che ha ormai assimilato ed esteso quelle lecorbuseriane "presenze provocatrici di emozione".

immagine: la Kunthaus de Graz, di Peter Cook

mercoledì 1 aprile 2009

SPAZIO INSCRITTO

Vorrei iniziare questo nuovo post, partendo dall'assunto di Mies che nel Baukunst und Zeitwille! scrive: "l'architettura è sempre volontà di un'epoca (Zeitwille) tradotta in spazio". Egli introduce due elementi chiave: la volontà e lo spazio, definendo quest'ultimo come risultato della volontà di un epoca, appunto. Lo spazio abitabile cambia a seconda delle epoche, con la società stessa, rappresentandone la visione, lo spazio mentale. Per millenni lo spazio architettonico si è basato su un'idea archetipa, con elementi variabili nella superficie ma non nella sostanza, definendo bene, elementi come porte, finestre, mura e, addirittura, la tipologia stessa dell'architettura, come abbiamo individuato in aula nella realizzazione del chart. In tal senso, l'individuazione di un'architettura la cui forma tipologica risultava stabilita a priori e caratterizzata da chiusura e continuità (in un legame simbiotico tra edificio e città che seguiva la famosa formula 'l'organizzazione della città deve rispecchiare quella della casa', e viceversa), esprimeva molto bene quello che Mies van der Rohe indicava come Zeitwille. L'architettura industriale già poneva in crisi queste tipologie classiche risponendo, antiteticamente, con la forza della nuova architettura. Anche oggi, l'architettura informatica, sebbene sia ancora agli esordi,ha già prodotto notevoli cambiamenti, riscontrabili soprattutto nei progetti degli architetti di avanguardia.

Quando Peter Eisenman, che oltre ad essere un architetto "costruttore" è anche un architetto "teorico", sostiene che "finestre, porte, travi e colonne sono un modo di inscrivere lo spazio", egli continua illustrando questa sua concezione: "esse rendono l'architettura un fatto evidente, rafforzando la visione. Dato che non esistono spazi non inscritti, non possiamo guardare a una finestra senza porla in relazione con l'idea di finestra". In questa sua descrizione del modo di organizzare lo spazio, Eisenman unisce quello che probabilmente potremmo definire il dato "finestra" con l'informazione denotata dalla finestra stessa. Ma, cosa succede a questa informazione - alla "finestra" per intenderci - nella nostra epoca, l'epoca della rivoluzione informatica, in cui l'informazione nasce in un mondo che per sua natura è informatizzato? Si ha certamente un cambiamento di paradigma, ben interpretato, del resto, da Zaha Hadid quando avverte l'esigenza di operare sottraendo "quei dati familiari che, altrimenti, permetterebbero agli abitanti di ricadere nei consueti comportamenti", ovvero di utlizzare una convezione totalmente nuova rispetto ai dati che finora hanno assunto valore archetipo.

Per far chiarezza su questo punto riporto un breve estratto di Patrik Schumacher in Hadid Digitale, che, a pag. 19, scrive:
"Le nuove tecniche conducono a una nuova concezione dello spazio (spazio del campo magnetico, spazio particellare, spazio distorto) e suggeriscono un nuovo orientamento, una navigazione e modalità di abitazione nuove. Chi abita in un ambiente così concepito non si orizzonta mediante le forme primarie: assi, limiti e spazi chiaramente definiti. Piuttosto, la destribuzione delle densità, la polarizzazione direzionale, la distribuzione scalare delle texture, i vettori gradienti di trasformazione costituiscono la nuova ontologia che definisce che cosa significhi vivere uno spazio".
All'interno di queste brevi righe, accade dunque una vera rivoluzione architettonica, che, a partire dall'uso del nuovo potente strumento, sviluppa un'inedita architettura.

Dopotutto è forse vera la teoria di Charles Winick della City University di New York, che l'uomo ha un rapporto con la televisione simile a quello di un tossicodipendente con droga o alcool, ovvero che ha conseguenze assai gravi: oltre a portare lo spettatore verso uno specifico punto di vista, lo induce, anche ad accettare l'immagine che sta guardando, in tutta la sua interezza. L'ambiente e gli oggetti mostrati sono stati selezionati da altri, lo spettatore è spinto a una percezione passiva. Questo atteggiamento dannoso, coincide probabilmente con ciò che è stata l'architettura preindustriale, che assumeva un punto di vista unico, mentre sfugge all'idea dell'architettura degli utlimi 50-60anni, un'architettura cioè - soprattutto quella digitale - in cui i mezzi stessi di rappresentazione non possono più essere quelli consueti, ma devono rinnovarsi. Ma una rappresentazione veramente chiara non sarà forse ancora possibile, poiché questa nuova architettura è conoscibile solo attraverso il suo essere percorsa, ovvero tramite quel vivere uno spazio che già Bruno Zevi definiva "temporalizzato".


immagine: BETILE, il progetto dello studio Zaha Hadid per il museo mediterraneo dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea