L'età "e grossa et inetta" di cui parla il Vasari nel suo "Le Vite" è ancora il Medioevo italiano, periodo in cui troviamo però l'eminente figura di Giotto di Bondone, cui egli attribuisce il merito di aver riscoperto, o meglio risuscitato, l'antico modo di fare bella arte. La mostra ospitata dal Complesso del Vittoriano a Roma, presenta una rassegna sul "più Sovrano Maestro stato in dipintura" che inquadra, con le 150 opere presenti, il periodo tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento. É indicativo come contemporaneo di Giotto fosse -tra gli altri- Dante Alighieri, il "sommo poeta" che condivide col pittore il titolo di "primo italiano", fatto quantomeno evidenziato dai loro continui viaggi che li porteranno a percorre da Nord a Sud tutta la penisola italiana, cui il testo del Vasari ne dà precisa rotta. La rivoluzione di Giotto viene ad emergere insieme al complesso programma iconografico, impostato su costruzioni spaziali scenografiche secondo lo spazio dell'architettura, i cui elementi vengono pensati e faticosamente riprodotti in prospettiva (malgrado la sua a-scientificità). La tecnologia aiuta la mostra nello svolgimento del suo programma: il Vittoriano voleva riproporre una raccolta delle opere tale da "ripercorrere nella sua interezza il percorso figurativo giottesco" a distanza di oltre settanta anni dall'ultima grande mostra su Giotto, allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937. É palese la difficoltà di articolare una mostra con abbia una sua completezza, per artisti come Giotto, che realizzano le proprie opere più importanti soprattutto come affreschi; per porre rimedio a tale gap, gli allestitori della mostra ricorrono alla tecnologia: sul corridoio del primo piano, essi impostano una decina di schermi che presentano gli affreschi -evidentemente di impossibile rimozione e trasporto- riempiendo quel vulnus rispetto a una parte del lavoro di Giotto. Purtroppo però i monitor non sono interattivi -come sono, devo dire inutilmente, quelli al piano inferiore che presentano le regioni italiane con le descrizioni delle opere giottesche- per cui il corridoio, sovraffollandosi a causa dell'attesa dei visitatori tra uno zoom e l'altro, ne penalizza l'esposizione.
Nel presentare di seguito un breve estratto di alcune opere presenti alla mostra, voglio precisare che esse sono state scelte non sulla base di una qualità strettamente connessa alle opere d'arte, come potrebbe fare uno storico dell'arte, ma piuttosto, secondo suggestioni personali evocate da tali opere. Da subito si percepisce una caratteristica comune: le figure sono tutte incorniciate. I limiti delle tavole inquadrano e dimensionano scalarmente le figure rappresentate al loro interno. Il pastoso blu dello zaffiro riempie delle sue tonalità i nostri occhi, non più abituati a un colore così deciso. In una saletta del primo piano sono stati collocati bellissimi manoscritti medievali, la cui superficie liscia e lucida (evidenziata dalle lampade fluorescenti che escono evidentemente dalla loro logica di creazione) si anima delle pieghe del tempo, come stanche di essere vicine l'une alle altre da ormai toppi secoli, gonfiandosi e separandosi, orgogliose delle propria magnifica autonomia. Tra tutti, colpisce la pagina del miniatore milanese Goffredo da Viterbo (Pantheon, del XIV secolo) in cui egli disegna figure che invadono liberamente lo spazio del testo, sgomitando le lettere latine nere e rosse. Ma è la sala grande a raccogliere le opere più belle: quasi tutte le figure sono in posa tre-quarti; il viso gira alla ricerca della rappresentazione di una tridimensionalità e spazialità, individuata attraverso la direzionalità del naso, che diventa l'elemento di rottura della frontalità. Il recto della lunga tavola di Giotto rappresentante "L'annunciazione tra i Santi Reparata, Giovanni Battista, Maria Maddalena, Nicola" del 1310, colpisce in un particolare: Santa Reparata è vestita di un morbido abito che cade cosciente della forza di gravità; questa veste color porpora stupisce però quando, nel suo scendere verso i piedi, incontra la piatta superficie del terreno, assumendo pieghe che ci vengono incontro abbattendo la distanza tra la Santa e noi.
La rappresentazione delle figure galleggia all'interno di un prezioso sfondo d'orato, realizzando una netta separazione, quasi un brusco accostamento, a tal punto che spesso è forte un senso moderno di decoupage! Salendo al piano superiore l'affresco staccato del crocifisso di Pietro (o Giuliano?) da Rimini del 1320-1330, porta i segni dei suoi secoli, realizzando però, inavvertitamente, qualcosa che stimola pensieri diversi. La figura del Cristo, così come oggi la vediamo, viene a fondersi con la tempera grigio-ocra dell'intonaco, dal quale, come tinta su tinta, emergono solo alcuni particolari, legando strettamemente il soggetto rappresentato e il suo supporto. La velatura generata dal drappo grigio del tempo, avvolge l'affresco consentendo comunque di intuire la figuratività dell'oggetto che ricopre. Più avanti poi, sempre in un affresco staccato, è divertente vedere un'architettura decostruttivista (si fa per dire ovviamente) attraverso un frammento dell'Orcagna (Andrea di Cione) tratto dai Mendicanti (del Trionfo della Morte, 1350), che rappresenta il crollo di una fabbrica, un istante dinamico congelato dalle pennellate dell'artista.
Ciao Andrea!! molto bella questa copertura/panneggio ;)
RispondiEliminaGrazie! ma è ancora una bozza al dire il vero! ciao a presto :-)
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