domenica 30 agosto 2009

CHAOS


Ciò che conta nei frattali, non è tanto l'immagine risultante, ma piuttosto il programma: un infinitesimo piccolo e un infinitesimo grande. Come sappiamo le scienze non possono occuparsi di sistemi divergenti, ma solo di quelli convergenti, poiché dei primi non può essere data generalizzazione, come ad esempio nei percorsi del diagramma della biforcazione. Tutta la fisica del caos però nasce su un assunto: a piccole variazione del sistema allo stato iniziale corrispondono grandi varaiazioni allo stato finale. In questa maniera la presunzione delle scienze riguardo la prevedibilità degli eventi salta: allorchè si presentasse anche un solo evento (unico, non regolare, non periodico ecc), si creerebbe un buco nel sistema, che a livello fisico può anche non essere importante, dopotutto tutte le scienze si basano sull'approssimazione e sulla statistica, ma a livello metafisico le cose cambiano, perché cambia l'idea fondativa stessa dell'universo, che per usare il linguaggio deleuziano, possono essere 'isole di regolarità immerse in un mare di caos oppure isole di caos immerse in un mare di regolarità', fattostà, però, che la rete delle scienze si smaglia, tutto si relativizza, poichè le isole sono isole e pertanto si può parlare di assolutezza solo all'interno dei limiti delle isole. E forse non è un caso che la caduta del sistema scientifico, fisico, ovvero della metafisica, abbia portato alle isole di competenze: la fisica non è più la Fisica, ma fisica meccanica, fisica nucleare, astro-fisica, geo-fisica ecc. che sono separate da chimica, ingegneria ecc. La particellizzazione della conoscenza agisce sul livello fisico di questa, e funziona perfettamente (o quasi) fino a che non si mettono a sistema, sino a che non si allarga lo zoom, come in google map, verso le altre isole.
L'architettura è certa, concreta, artificiale. Ma essa deve esprimere la propria certezza autoreferenziale, e quindi guardare sé stessa ed esempi passati di cose a sé simili, o deve piuttosto prendere a modello la Natura, ancora incerta e ondivaga, della Biologia o, comunque, della realtà?

Gli antichi greci rappresentavano il Chaos come la personificazione dello stato primordiale, del vuoto da cui poi nacquero le divinità. E' interessante notare come 'chaos' ( tό χάος in greco classico) voglia dire strappo, fenditura: la rottura di qualcosa (una crisi?) da cui poi far nascere il nuovo mondo divino. In un certo senso, per passare dal caos alla fase successiva occorre molta energia: lo stato di caos è per forza di cosa uno staus molto complesso, che può facilmente risultare incomprensibile o addirittura irrazionale; dal contro campo la fase successiva riesce ad essere meglio compresa (anche se magari non del tutto) poiché parzializzata da una precedente di grado esponenzialmente più complesso. La differenza di campo è netta, e il problema, ancora una volta si riduce al problema della scelta: scegliere se giocare con il lego o con il das.

venerdì 28 agosto 2009

ARCHITETTURA METAFISCA

"Ciò che la scienza può raggiungere -affermava Poincarè, lo scienziato francese fondatore delle geometrie non euclidee- non sono le cose stesse [...], ma solo le relazioni tra le cose. Al di fuori di queste relazioni non esiste realtà conoscibile".
Il numero è un simbolo. La sua importanza oggi decade e si relativizza: ciò che conta non è più quantificare (l'universo, come nel rinascimento), ma il solo rapporto tra le parti (la forma, cfr F. Bigotti in 'La mente che ordina i segni, ed. Aracne, 2009). Anche in architettura, con l'eliminazione dei passaggi intermedi dal progetto alla realizzazione -ottenuto grazie alle tecnologie CAM-, l'architetto può benissimo fare a meno di utilizzare numeri e procedendo attraverso un processo relazionale a cascata, per cui data una dimensione simbolicamente "vera" -ovvero in grado di ospitare agevolmente funzioni ecc- le altre forme possono esserne ricavate attraverso rapporti scalari .1 .2 .3 ecc. Le relazioni assumono ruolo primario nella progettazione; l'anteprima di AutoCad 2010 svela nuove funzioni parametriche, che permette di agire sugli enti attraverso operazioni parametriche tipo 'uguale, coincidente, parallela, ortogonale, allineato', ecc. Ciò implementa il cambiamento che sta avvenendo nella maniera di progettare e concepire la forma dello spazio come relazione tra le parti.
Dopotutto l'artificio del simbolo numerico ha la sua forza in un ambiente puramente fisico-concreto, nella contabilità, ma trascendendo al piano meta-fisico, una qualsiasi numerazione appare inutile, non costituente un incremento conoscitivo; ciò è più vero se si pensa al legame con la logica, in cui sono ammessi parametri come quelli booleani del true/false, o quelli della logica classica uno, alcuni, tutti, nessuno, è, non è, ecc. Anche l'architetto greco Takis Zenetos, aveva individuato che: "Non esiste l'invenzione. Innovazione è l'aggiunta di informazioni a ciò che già esiste", ponendo l'esistente su un piano base sul quale poter carpire informazioni che già erano lì.
Il livello di astrazione raggiunto grazie ai modelli realizzati all'interno del mezzo informatico, non hanno dopotutto alcun rapporto con la realtà fino al trasporto in questa; finitezza e infinitezza sono due concetti che si scontrano. Le teorie del caos, inoltre, hanno dato un duro colpo alle scienze, che pretendevano di generalizzare le proprie leggi all'intero sistema universale, concependo un Universo "creato", nel quale gli scienziati riuscivano ad individuarne le leggi fondamentali.


mercoledì 26 agosto 2009

PERSONAL ARCHITECTURE

Ormai abbiamo compreso quanto l'Information Technology stia cambiando in maniera sempre più concreta non solo il nostro modo di vivere ma quello di pensare. Spesso mi capita di immaginare quanto nella vita reale sarebbe utile un comando "undo", per risolvere piccoli problemi, errori e dettagli che punteggiano le nostre giornate. L'ambiente virtuale, che sperimentiamo ogni qualvolta l'interfaccia del computer ci proietta al suo interno, è talmente penetrato nel nostro modo di fare (e di essere), che addirittura -per fare un esempio- si perde la grafia acquisita negli anni delle scuole, talmente ormai abituati a digitare lettere e non più a tracciarle e quindi ad associare il simbolo al pulsante, perdendo, la lettera, la sua fisicità, per perdersi completamente nel mondo delle idee e delle informazioni. La tastiera e il mouse sono periferiche; non costituiscono dunque un accredito qualitativo dell'ambiente virtuale, ma solo una nostra "comodità" di dialogo con la macchina. Lo schermo piatto e luminoso di questo mondo penetra affondo nei nostri sguardi, proiettandoci una natura "altra" sperimentabile ancora -per ora- solo attraverso la vista e l'udito.
A lezione si è più volte ribadito il significato che l''IT ha assunto a livello di offerta commerciale, nel senso che i prodotti nati in questa epoca tendono ad essere sempre più personalizzabili, al punto che si potrebbero produrre automobili tutte diverse (...alla faccia di Ford!); a tal proposito c'è un'efficace battuta di Beppe Grillo che segnala come sono cambiate le cose: "fino a cinquant'anni fa, si produceva un bene e si cercava di venderlo a più persone possibili, oggi si producono molti beni e li si cerca di vendere ad uno solo!".
Ma l'architettura, allora, come ha registrato tale cambiamento di offerta?
Già cinquant'anni fa Gilles Ivain, aveva individuato: "il complesso architettonico sarà modificabile. Il suo aspetto cambierà in parte o del tutto a seconda della volontà dei suoi abitanti". Se l'architettura immaginata da Ivain è una sorta di interfaccia, ovvero di un sistema attraverso il quale poter interagire per organizzare liberamente lo spazio abitabile, allora tale iper-spazio, trascende il pragmatismo della materia inerte, pur essendo fisico diviene metafisico. La mutevolezza dell'ambiente architettonico, potrà dunque assumere semantiche sempre nuove, dipendenti dalla volontà del soggetto, ottenendo un'architettura capace di farsi continuamente 'Personal'.

martedì 19 maggio 2009

WRAPPING PROCESS, CYCLIC LOOP, MARATONDA...

'What is a Caucus-race?' said Alice; not that she much wanted to know, but the Dodo had paused as if it thought that somebody ought to speak, and no one else seemed inclined to say anything. 'Why,' said the Dodo, 'the best way to explain it is to do it.' (And, as you might like to try the thing yourself, some winter-day. I will tell you how the Dodo managed it.) First it marked out a race-course, in a sort of circle, ('the exact shape doesn't matter,' it said,) and then all the party were placed along the course, here and there. There was no 'One, two, three and away!', but they liked, so that it was not easy to know when the race was over. However, when they had been running half an hour or so, and were quite dry again, the Dodo suddenly called out 'The race is over!', and they all crowed round it, panting, and asking 'But who has won?'

"Che cos'è un Carosello elettorale [una Maratonda, nda]?" disse Alice: non che ci tenesse molto a saperlo, ma il Dodo aveva lasciato cadere una pausa come se qualcuno dovesse prendere la parola, ma nessuno si era sognato di farlo."Be'," disse il Dodo, "il modo più democratico per spiegarli è farlo." (E nel caso aveste voglia anche voi di sperimentarlo un giorno d'inverno, adesso vi dirò come lo organizzò il Dodo.) Innanzitutto traccio la pista, una specie di cerchio ("cerchio o quadrato basta che sia una pista," disse lui) e poi tutta la brigata fu piazzata lungo il circuito in ordine sparso. Non ci fu alcun "Uno due tre via!", ma ognuno si ritirava a capriccio, cosicché non era tanto facile stabilire se si era tagliato un traguardo. Tuttavia, dopo che tutti quanti avevano corso una mezz'ora e erano tutti belli asciutti, il Dodo tagliò corto: "Fine della gara!" e tutti gli si radunarono intorno, ansimanti, e gli chiesero: "Ma chi ha vinto?"
I Classici Universale Economica Feltrinelli, Lewis Carroll, "Alice nel paese delle meraviglie", trad. it. Aldo Busi

Oltre che per la ciclicità rappresentata nella Maratonda di Alice, il libro di Carroll fa riflettere anche su un'altra questione:
Alice ne paese delle nanomeraviglie
"Nel suo romanzo Alice nel paese delle meraviglie, Lewis Carroll immagina lo stupore della piccola Alice che dopo aver bevuto un curioso intruglio, si trova ridotta alle dimensioni di un topino; le si schiude così un mondo che è tutto una scoperta: la toppa di una serratura non è più soltanto il luogo dove infilare una chiave ma diventa un passaggio tra due stanze, e un bicchiere d'acqua rovesciato smette di essere qualcosa da nascondere alla mamma per trasformarsi in un pericoloso nubifragio. Un mondo meraviglioso, ancor prima di incontrare cappellai matti e gatti birboni: per Alice, un mero salto di scala muta la percezione della realtà in qualcosa di nuovo".
Dario Narducci, "Cosa sono le nanotecnologie, istruzioni per l'uso della prossima rivoluzione scientifica" Sironi Editore

Il salto (reale, immaginato o proiettato) è sempre il motore della scoperta, come pure Jencks individua quale generatore dell'universo: un sistema complesso che si evolve per salti (cfr. Charles Jencks, The Architecture of the Jumping Universe)......

giovedì 30 aprile 2009

ASTRATTISMI

Allorchè si presentò, tra il XIX e XX secolo, il nuovo rilucente paesaggio della città industriale, alcuni artisti, più sensibili al cambiamento, ruppero violentemente col passato, dando al nuovo paesaggio la dignità di soggetto. La grande crisi generata dallo sviluppo della riproduzione fotografica, fece scoprire l'arte all'arte, non nella sua pseudo-falsa essenza di documentatrice storica, ma piuttosto di mezzo espressivo personale di un'artista. Le regole Classiche della composizione artistica saltano, e la composizione diviene sempre più incentrata su un nuovo modo critico di guardare al paesaggio, inteso nella sua inedita frammentarietà, discontinuità, episodicità, dinamicità. Se i dipinti divengono più semplici (e veloci) da realizzare (nasce l'"en plain air"), essi si caricano invece di più complessi significati, portati avanti dalla sensibilità dell'artista; se la realtà è il dato di partenza, gli artisti vi applicano una 'convenzione', realizzando l'opera d'arte. La solitaria figura di Cezanne assume un ruolo guida per i suoi colleghi, incentivando l'esternazione della propria personalità "dimenticando tutto quello che c'è stato prima". La necessità di prendere le distanze col passato, lo porta presto sulla strada dell'avanguardia, alla ricerca di un nuovo modo, coerente con la rivoluzione, di ricreare il volume, in una formalità costitutiva. Il nuovo sguardo dei pittori guarda alla realtà non più alla ricerca di una mimesi, ma di elementi, parti, atomi, individuati da un forte processo critico-analitico, che riduceva all'essenziale ogni episodicità, privandolo di risalto e dunque di una gerarchia. La realtà degli impressionisti è una realtà che deve essere penetrata (non rappresentata) per divenire una nuova natura, quasi metafisica. La "propria sensazione" dei pittori diviene la driving force delle opere, e Cezanne -come fa notare Alfonso Gatto- "ha l'estrema forma del suo informe". Come afferma il Prof. Saggio a lezione, "la nascita di un nuovo sguardo mette in crisi inanzitutto chi lo guarda" e non è un caso che c'è chi, nel 1903, sosteneva che appoggiare questo tipo di arte, sostenere queste "pazzie pittoriche", ovvero ammettendo l'artista Cezanne, "non rimane che dar fuoco al Louvre", in cui peraltro il pittore francese riconosceva "il luogo in cui impariamo a leggere". Paul Cezanne riesce a comprende la forza mistica che esplode dalle cose mute, dai tronchi e dalle rocce, dei quali sa conservare la purezza della sensazione. L'architettura di un Cezanne sarebbe forse un'architettura primitiva, realizzata pietra su pietra, senza piano preordinato e senza raffinamenti, in un'immagine immobile e senza articolazioni, che combatte il "circoscrivere i contorni con un tratto nero", errore che per lo stesso pittore è rifuggibile attraverso la natura. Semplicità ed astrazione del disegno sono un modo di controllare la complessità; se la realtà viene intesa come un tutt'uno complesso, la composizione astratta, consente di asciugarla e di attribuirle nuovi significati.
Il processo dell'astrazione comporta la perdita di validità dalle tipologie consuete e familiari, a cui la storia ci ha pigramente abituati. L'arrivo prorompente dell'informatica, implica l'astrazione: essa infatti nasce formalizzata in un mondo deduttivo, che risponde alla domanda What...If, giocando sulla minimizzazione del numero di istruzioni da eseguire per risolvere la questione. Il concetto di modello, che come sostiene Einstein è "un'astrazione selettiva della realtà", include al suo interno il processo di semplificazione rispetto agli elemeti strettamenti necessari per rappresentare vividamente la realtà. Tutte le scienze (uso il plurale!) che abbiamo oggi, partono da questi assunti di semplificazione, riconoscendo nello studio universale della realtà una complessità eccessiva da poter essere studiata e compresa. Mentre generalmente il modello allontana dalla realtà, in architettura oggi ha un effetto contrario: grazie all'IT l'immagine virtuale può divenire senza quasi intermediari oggetto (architettonico) concreto, a presa diretta. Oltre all'astrazione formale, oggi siamo in presenza, come ci segnalano lo studio giapponese SANAA in presenza anche di una 'esperienza della visione astratta', utilizzando del digitale, soltanto alcuni strutturanti caratteri linguistic: trasparenza, immaterialità, luminosità e gestione dei flussi.

I pensieri qui presentati sono stati sviluppati a partire dalla lezione del Prof Saggio del 18 marzo. Ascolta parte A>> parte B>>

Immagine: riflesso sui vetri del Dior Building, Omotesando, Tokyo, di SANAA

giovedì 23 aprile 2009

GIOTTO E IL TRECENTO

L'età "e grossa et inetta" di cui parla il Vasari nel suo "Le Vite" è ancora il Medioevo italiano, periodo in cui troviamo però l'eminente figura di Giotto di Bondone, cui egli attribuisce il merito di aver riscoperto, o meglio risuscitato, l'antico modo di fare bella arte. La mostra ospitata dal Complesso del Vittoriano a Roma, presenta una rassegna sul "più Sovrano Maestro stato in dipintura" che inquadra, con le 150 opere presenti, il periodo tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento. É indicativo come contemporaneo di Giotto fosse -tra gli altri- Dante Alighieri, il "sommo poeta" che condivide col pittore il titolo di "primo italiano", fatto quantomeno evidenziato dai loro continui viaggi che li porteranno a percorre da Nord a Sud tutta la penisola italiana, cui il testo del Vasari ne dà precisa rotta. La rivoluzione di Giotto viene ad emergere insieme al complesso programma iconografico, impostato su costruzioni spaziali scenografiche secondo lo spazio dell'architettura, i cui elementi vengono pensati e faticosamente riprodotti in prospettiva (malgrado la sua a-scientificità). La tecnologia aiuta la mostra nello svolgimento del suo programma: il Vittoriano voleva riproporre una raccolta delle opere tale da "ripercorrere nella sua interezza il percorso figurativo giottesco" a distanza di oltre settanta anni dall'ultima grande mostra su Giotto, allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937. É palese la difficoltà di articolare una mostra con abbia una sua completezza, per artisti come Giotto, che realizzano le proprie opere più importanti soprattutto come affreschi; per porre rimedio a tale gap, gli allestitori della mostra ricorrono alla tecnologia: sul corridoio del primo piano, essi impostano una decina di schermi che presentano gli affreschi -evidentemente di impossibile rimozione e trasporto- riempiendo quel vulnus rispetto a una parte del lavoro di Giotto. Purtroppo però i monitor non sono interattivi -come sono, devo dire inutilmente, quelli al piano inferiore che presentano le regioni italiane con le descrizioni delle opere giottesche- per cui il corridoio, sovraffollandosi a causa dell'attesa dei visitatori tra uno zoom e l'altro, ne penalizza l'esposizione.

Nel presentare di seguito un breve estratto di alcune opere presenti alla mostra, voglio precisare che esse sono state scelte non sulla base di una qualità strettamente connessa alle opere d'arte, come potrebbe fare uno storico dell'arte, ma piuttosto, secondo suggestioni personali evocate da tali opere. Da subito si percepisce una caratteristica comune: le figure sono tutte incorniciate. I limiti delle tavole inquadrano e dimensionano scalarmente le figure rappresentate al loro interno. Il pastoso blu dello zaffiro riempie delle sue tonalità i nostri occhi, non più abituati a un colore così deciso. In una saletta del primo piano sono stati collocati bellissimi manoscritti medievali, la cui superficie liscia e lucida (evidenziata dalle lampade fluorescenti che escono evidentemente dalla loro logica di creazione) si anima delle pieghe del tempo, come stanche di essere vicine l'une alle altre da ormai toppi secoli, gonfiandosi e separandosi, orgogliose delle propria magnifica autonomia. Tra tutti, colpisce la pagina del miniatore milanese Goffredo da Viterbo (Pantheon, del XIV secolo) in cui egli disegna figure che invadono liberamente lo spazio del testo, sgomitando le lettere latine nere e rosse. Ma è la sala grande a raccogliere le opere più belle: quasi tutte le figure sono in posa tre-quarti; il viso gira alla ricerca della rappresentazione di una tridimensionalità e spazialità, individuata attraverso la direzionalità del naso, che diventa l'elemento di rottura della frontalità. Il recto della lunga tavola di Giotto rappresentante "L'annunciazione tra i Santi Reparata, Giovanni Battista, Maria Maddalena, Nicola" del 1310, colpisce in un particolare: Santa Reparata è vestita di un morbido abito che cade cosciente della forza di gravità; questa veste color porpora stupisce però quando, nel suo scendere verso i piedi, incontra la piatta superficie del terreno, assumendo pieghe che ci vengono incontro abbattendo la distanza tra la Santa e noi.

La rappresentazione delle figure galleggia all'interno di un prezioso sfondo d'orato, realizzando una netta separazione, quasi un brusco accostamento, a tal punto che spesso è forte un senso moderno di decoupage! Salendo al piano superiore l'affresco staccato del crocifisso di Pietro (o Giuliano?) da Rimini del 1320-1330, porta i segni dei suoi secoli, realizzando però, inavvertitamente, qualcosa che stimola pensieri diversi. La figura del Cristo, così come oggi la vediamo, viene a fondersi con la tempera grigio-ocra dell'intonaco, dal quale, come tinta su tinta, emergono solo alcuni particolari, legando strettamemente il soggetto rappresentato e il suo supporto. La velatura generata dal drappo grigio del tempo, avvolge l'affresco consentendo comunque di intuire la figuratività dell'oggetto che ricopre. Più avanti poi, sempre in un affresco staccato, è divertente vedere un'architettura decostruttivista (si fa per dire ovviamente) attraverso un frammento dell'Orcagna (Andrea di Cione) tratto dai Mendicanti (del Trionfo della Morte, 1350), che rappresenta il crollo di una fabbrica, un istante dinamico congelato dalle pennellate dell'artista.

giovedì 9 aprile 2009

ARCHITECTURE À RÉACTION POÉTIQUE

Quando Le Corbusier, nelle sue case introduceva - oltre alla promenade architecturale - i famosi 'oggetti a reazione poetica', egli estrapolava selezionatamente dal mondo frammenti plastici, che poi traduceva in design. Un mondo che poteva essere quello della natura, piuttosto che quello della storia o ancora quello della macchina e della quotidianità, a cui appartenevano elementi scelti attraverso "occhi che sanno vedere". Una volta che Le Corbusier aveva soddisfatto le richieste funzionali dell'architettura, attraverso processi quasi normativi, egli faceva - come aveva appreso sull'acropoli di Atene - emergere dalla "standardizzazione" la sua personalità artistica, infondendo alle sue architetture quello che Zevi definisce un "geometrico palpito cosmico". Questi oggetti non dovevano semplicemente essere lì, ma suscitare una reazione; non
dovevano lasciare impassibili i fruitori, ma coinvolgerli in un sentimento, in un'emozione, che l'architetto svizzero definisce addirittura poetica. Se da un lato dunque c'è una visione dell'architettura come macchina che doveva per prima cosa funzionare bene, avvicinandosi a un lato più propriamente tecnico-scientifico, dall'altro lato, Le Corbusier - che era anche pittore e scultore - ci insegna che occorre imprimere all'architettura qualcosa di più, qualcosa che oggi potremmo definire una "informazione" in più, che egli legava ad alcuni oggetti particolari (ossa, conchiglie, foglie, rami, sassi, ecc.).

Per riportare il discorso ai giorni d'oggi, come afferma il Prof. Saggio, il dato "funziona bene" è un assunto imprescindibile che ormai si dà per scontato; quello che conferisce all'architettura (come anche ad altri campi) un plusvalore, è l'elemento informazione. La nuova architettura sta diventando nella sua interezza un object à réaction poétique, e l'intero processo progettuale, avanzato sull'informazione, deve costruire forme estetiche capaci di emozionare. Se per alcuni queste forme sono costituite dalla purezza dei solidi platonici, altri invece la individuano - come anche Le Corbusier nell'ultimo periodo della sua attività - in forme più libere e complesse che riescono ugualmente (o forse anche di più) a pizzicare quelle corde dei sentimenti che ci fanno emozionare. Come già sostenevo in un altro post, oggi ci stiamo avvicinando molto a quelli che per i Greci erano gli ideali di bellezza: la scultura greca era ritenuta più bella tanto più essa si avvicinava a simulare il reale - ricordiamo in proposito il celebre Grappolo d’uva di Apelle (IV secolo a.C.) che, a detta della diffusa aneddotica, era così simile al vero che “gli uccelli correvano a becchettarne gli acini”. Questo concetto di mimesis è trasportato oggi all'interno dell'in-formazione architettonica, tanto che troviamo (un nome per tutti: Calatrava) vere e proprie architetture che traggono origine da riflessioni su conchiglie, ossa ecc. Grazie all'information technology, la biologia entra ancora più potentemente nell'architettura, soprattutto nello studio dei suoi processi chimico-fisici, tanto che già si iniziano a vedere prodotti edifici sempre più simili a organismi, in un'estasi estetica che ha ormai assimilato ed esteso quelle lecorbuseriane "presenze provocatrici di emozione".

immagine: la Kunthaus de Graz, di Peter Cook

mercoledì 1 aprile 2009

SPAZIO INSCRITTO

Vorrei iniziare questo nuovo post, partendo dall'assunto di Mies che nel Baukunst und Zeitwille! scrive: "l'architettura è sempre volontà di un'epoca (Zeitwille) tradotta in spazio". Egli introduce due elementi chiave: la volontà e lo spazio, definendo quest'ultimo come risultato della volontà di un epoca, appunto. Lo spazio abitabile cambia a seconda delle epoche, con la società stessa, rappresentandone la visione, lo spazio mentale. Per millenni lo spazio architettonico si è basato su un'idea archetipa, con elementi variabili nella superficie ma non nella sostanza, definendo bene, elementi come porte, finestre, mura e, addirittura, la tipologia stessa dell'architettura, come abbiamo individuato in aula nella realizzazione del chart. In tal senso, l'individuazione di un'architettura la cui forma tipologica risultava stabilita a priori e caratterizzata da chiusura e continuità (in un legame simbiotico tra edificio e città che seguiva la famosa formula 'l'organizzazione della città deve rispecchiare quella della casa', e viceversa), esprimeva molto bene quello che Mies van der Rohe indicava come Zeitwille. L'architettura industriale già poneva in crisi queste tipologie classiche risponendo, antiteticamente, con la forza della nuova architettura. Anche oggi, l'architettura informatica, sebbene sia ancora agli esordi,ha già prodotto notevoli cambiamenti, riscontrabili soprattutto nei progetti degli architetti di avanguardia.

Quando Peter Eisenman, che oltre ad essere un architetto "costruttore" è anche un architetto "teorico", sostiene che "finestre, porte, travi e colonne sono un modo di inscrivere lo spazio", egli continua illustrando questa sua concezione: "esse rendono l'architettura un fatto evidente, rafforzando la visione. Dato che non esistono spazi non inscritti, non possiamo guardare a una finestra senza porla in relazione con l'idea di finestra". In questa sua descrizione del modo di organizzare lo spazio, Eisenman unisce quello che probabilmente potremmo definire il dato "finestra" con l'informazione denotata dalla finestra stessa. Ma, cosa succede a questa informazione - alla "finestra" per intenderci - nella nostra epoca, l'epoca della rivoluzione informatica, in cui l'informazione nasce in un mondo che per sua natura è informatizzato? Si ha certamente un cambiamento di paradigma, ben interpretato, del resto, da Zaha Hadid quando avverte l'esigenza di operare sottraendo "quei dati familiari che, altrimenti, permetterebbero agli abitanti di ricadere nei consueti comportamenti", ovvero di utlizzare una convezione totalmente nuova rispetto ai dati che finora hanno assunto valore archetipo.

Per far chiarezza su questo punto riporto un breve estratto di Patrik Schumacher in Hadid Digitale, che, a pag. 19, scrive:
"Le nuove tecniche conducono a una nuova concezione dello spazio (spazio del campo magnetico, spazio particellare, spazio distorto) e suggeriscono un nuovo orientamento, una navigazione e modalità di abitazione nuove. Chi abita in un ambiente così concepito non si orizzonta mediante le forme primarie: assi, limiti e spazi chiaramente definiti. Piuttosto, la destribuzione delle densità, la polarizzazione direzionale, la distribuzione scalare delle texture, i vettori gradienti di trasformazione costituiscono la nuova ontologia che definisce che cosa significhi vivere uno spazio".
All'interno di queste brevi righe, accade dunque una vera rivoluzione architettonica, che, a partire dall'uso del nuovo potente strumento, sviluppa un'inedita architettura.

Dopotutto è forse vera la teoria di Charles Winick della City University di New York, che l'uomo ha un rapporto con la televisione simile a quello di un tossicodipendente con droga o alcool, ovvero che ha conseguenze assai gravi: oltre a portare lo spettatore verso uno specifico punto di vista, lo induce, anche ad accettare l'immagine che sta guardando, in tutta la sua interezza. L'ambiente e gli oggetti mostrati sono stati selezionati da altri, lo spettatore è spinto a una percezione passiva. Questo atteggiamento dannoso, coincide probabilmente con ciò che è stata l'architettura preindustriale, che assumeva un punto di vista unico, mentre sfugge all'idea dell'architettura degli utlimi 50-60anni, un'architettura cioè - soprattutto quella digitale - in cui i mezzi stessi di rappresentazione non possono più essere quelli consueti, ma devono rinnovarsi. Ma una rappresentazione veramente chiara non sarà forse ancora possibile, poiché questa nuova architettura è conoscibile solo attraverso il suo essere percorsa, ovvero tramite quel vivere uno spazio che già Bruno Zevi definiva "temporalizzato".


immagine: BETILE, il progetto dello studio Zaha Hadid per il museo mediterraneo dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea

sabato 28 marzo 2009

IL RITORNO DEL DEMIURGO



C'è una cosa che l'architetto è senz'altro chiamato a fare: una scelta. Già da prima di San Tommaso (1225-1274) il tema del libero arbitrio ha assunto un ruolo centrale all'interno della società. Anche l'architettura come opera dell'uomo (e della società), accoglie al suo interno questo tema, quello, cioè, della scelta personale e soggettiva: un certo tipo di scelta e a volte il coraggio di averla portata avanti, ha segnato il successo o l'insuccesso dell'operazione architettonica. Soprattutto nell'umanesimo, in cui in tutti i campi l'uomo diviene soggetto centrale (si realizza l'homo faber vitruviano), riponendo nelle sue mani (nelle sue scelte quindi) il destino dell'universo: non è un caso -azzardo a dire- che il rinascimento segna la nascita delle "archi-star"; l'architetto diventa mediatore tra il mondo delle idee e la materia, diventa in un certo senso il demiurgo platonico! L'abilità tecnica dell'architetto dovrà sposare le idee, trasferendo dunque alla costruzione un valore informativo, come pure faceva notare il Prof. Saggio che vede l'informazione portatrice di valori aggiunti. Le grandi possibilità di scelta, portano naturalmente alla ricerca dei suoi limiti, ricerca che spesso si stabilizza divenendo movimenti e poi tradizioni, condizionando fortemente tutto il periodo storico successivo. Il campo del ricercatore viene spesso inteso con certo disagio, poichè egli si muove in un campo buio, con la luminosa torcia della sua razionalità indagando terreni sconosciuti; l'insinuarsi della paura verso l'ignoto, implica un rifiuto delle nuove posizioni, un non voler guardare avanti rimanendo ben radicati nel passato. Ma quando la ricerca porta alla discopertà di un elemento di novità, esso inarrestabilmente dilaga, insinuandosi come un fiume in piena, sradicando gli alberi ormai marci di una società vecchia e immobile; e non è un caso che i nuovi portati provengano sempre (o quasi) da giovani. Faceva notare Seneca che "coloro che vogliono (ovvero che aderiscono alla volontà del fato) vengono condotti, coloro che non vi aderiscono vengono strappati (ovvero costretti per forza ad aderire)" dove il fato rappresenta l'inarrestabile avanzare del nuovo.

Le avanguardie del XX secolo, sono state quelle che maggiormente hanno saputo recidere i ponti col passato; prendendone le distanze, sono riusciti a guardarlo con occhi nuovi, più distanti e dunque più storicamente critici. Se gli architetti di 7-800 erano (parafrasando Bernardo di Chartres) "nani sulle spalle di giganti", quelli dell'ultimo secolo (e ancor più i contemporanei) si trovano invece a navigare in un enorme mare aperto, in cui la scelta è diventata personalissima e i limiti delle capacità tecniche sono stati dilatati (virtualmente) all'infinito.

L'illusione di oggettivizzare la scelta architettonica (ogni volta che questa si poneva, come ad esempio nel rinascimento, piuttosto che in epoca moderna) portava in realtà a scegliere un range di soluzioni, e soprattutto ad imporre la propia scelta agli altri, per oggettivizzarla, a tal punto che Le Corbusier ci avverte nel suo Vers une Architecture che "senza pianta c'è disordine, arbitrio"; e aggiunge poi sul tracciato regolatore che esso è una "garanzia contro l'arbitrio". L'arbitrio viene visto quindi da Le Corbusier (ma non solo) come qualcosa da cui rifuggire, arrivando a dettare i suoi famosi cinque punti. Ricordiamo poi anche la famosa formula di Mies van der Rohe del "less is more", che propone un'architettura asettica, a volte fredda e quasi meccanica; ma forse, in fin dei conti, potrebbe avere ragione Oscar Wilde quando affermava che "nulla è più necessario del superfluo"...

immagine: il progetto del Palm Island di Dubai

mercoledì 25 marzo 2009

ASTERISMO



Breve post su alcune considerazioni relative all'incontro nella galleria "Come se" a San Lorenzo, rispetto all'intervento dell'artista Costantino A. Morosin.

L'arte di Morosin è suggestiva, egli prendendo spunto dalle nuove tecnologie di georeferenziazione, le utilizza in modo totalmente innovativo, alla ricerca (è il caso di dirlo) di una forma artistica. I suoi SIGNA mi hanno ricordato l'evento adamico dell'individuazione delle costellazioni e l'attribuzione a loro di segni e significati. In maniera analoga ai nostri progenitori col "naso all'insù", Morosin fa attraversare il globo dai "segni" della sua arte. Dapprima potrebbe apparire pretestuoso l'utilizzo del GPS, ma poi ci si accorge come nell'artista questa tecnologia, (questo strumento), dia risvolti molto interessanti, affatto banali, che come egli sottolinea sono ancora solo l'inizio. Questa ricerca solitaria, che potremmo definire pionieristica, aggiunta all'incoprensione degli altri e ad un probabile scetticismo, mi fanno tornare alla mente vecchie (e nuove) accuse rivolte all'architetto americano Gerhy riguardo la ben nota questione, se egli sia o meno un architetto piuttosto che un artista, uno scultore. E ancora, mi sovviene in mente anche la città della cultura in Galicia, progettato da Eisenman: lì l'architettura cerca di diventare paesaggio con le sue coperture organiche, che si instaurano nell'ambiente collinare spagnolo (rapporto tra natura e architettura e che in Morosin diventa tra arte e natura). In tutti questi discorsi, mi pare sia possibile individuare almeno due fili conduttori che si intrecciano: uno è il paesaggio, che cambia di significato cercandone una valorizzazione e che come fa notare il Prof Saggio, tale nuovo concetto di paesaggio "ribalta l'oggettivo in soggettivo e l'idea di estraneità in interiorità". Legato a questo, è l'altro: una nuova consapevolezza che la Terra (tutta) sia dominabile, a tal punto da consentire la realizzazione di super-sculture, come quella di Morosin che è senz'altro la più grande (almeno dimensionalmente) forma d'arte che l'umanità abbia mai pensato e prodotto. In maniera analoga all'introduzione della prospettiva nel Quattrocento -per la quale lo spazio è misurabile, quindi regolabile e conoscibile e dunque dominabile- i sitemi GPS di georeferenziazione ci stanno facendo entrare in una nuova definizione di spazio, in cui i puntini dei puntini delle figure di Morosin (pensate quasi come frattali) siamo noi: una forma d'arte che parte dall'uomo, arriva allo spazio e torna all'uomo.

immagine: una delle famose figure del sito peruviano di Nazca
video: propongo un divertente video sulla nuova tecnologia di Google Map


mercoledì 18 marzo 2009

EQUILIBRIO

Ieri pensavo al concetto di equilibrio e riflettevo su come, in fisica, la destabilizzazione di uno stato zero equilibrato, si riconduca -attraverso passaggi più o meno lunghi- ad un nuovo stato di equilibrio, differente dal primo, uno stato x, che può essere nuovamente destabilizzato e ritrovare un nuovo equilibrio nella conformazione x2 e così via. Per diversi secoli si è ritenuto che lo stato zero, ci fosse stato gentilmente tramandato dagli antichi per mezzo della tradizione, per individuare una maniera più perfetta, "buona e bella" -come direbbe il Vasari- da cui trarre modelli (o tipi), esenti da problemi soprattutto formali, difatto rilegando l'architettura a variazioni sul tema. Ma esistono però diverse "forme" di equilibrio, che l'architetto può e deve ricercare, non banalizzando tale ricerca ma riconoscendone la complessità per -come diceva Aldo Rossi- "non piombare nell’idiozia". Avere lo "stesso peso" non significa appiattimento, minimalismo, evitare elementi emergenti, ma piuttosto ricercare quella che il buon Lean Battista, identificava nella concinnitas (eleganza, ricercatezza, armonia). Certo è, che rispetto a seicento anni fa qualche cosa è cambiata, se non altro le avanguardie di primo novecento, hanno sradicato dai cervelli degli architetti quelle forme precostituite, ormai divenute esoscheletri dietro cui fuggire il terrore della crisi, che ancora nella stazione di Milano del 1931 cercava di arginarne l'incombente radicale cambiamento.

La perdita di basi sicure da cui poter partire, fu un salto nel vuoto che -con tutti i rischi che esso comporta- ha consentito all'architettura di spiccare il volo: un atto coraggioso cui la crisi aveva preparato il terreno. Perdere però quella certezza, quello scudo difensivo, ha costretto l'architettura ad autocriticarsi e ad individuare percorsi diversi da seguire: dall'enorme classizzazione cui la società industriale aveva portato, avverrà via via invece una singolarizzazione fino alla nascita delle vere democrazie e dell'uomo e della donna (specifico per sottolineare l'importanza dell'evento dell'emancipazione fimminile, fatto di importanza epocale) come individui. Il Novecento è stato un secolo molto denso di eventi, rapido nei cambiamenti, e forse sarà ricordato come il secolo dei cambiamenti. Oggi, figli di una duplice rivoluzione -industriale e informatica- più di allora sarà necessario e centrale il tema dell'equilibrio, non possedendo più quelle pratiche formule che consentivano la riuscita dell'operazione architettonica, né tantomeno manifesti da seguire, ma ogni progetto sarà una sfida a sé, in una ricerca continua che, come abbiamo detto, non può più finalizzarsi all'individuazione di uno stato di equilibrio per eccellenza, ma di uno possibile fra tanti.

martedì 17 marzo 2009

L'ELLENISMO E IL DINAMISMO

A lezione abbiamo parlato di modernità, utilizzando le parole del filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard, che la definiva ciò che "fa della crisi un valore, una morale contraddittoria, e suscita un'estetica di rottura". E' una definizione certo inusuale a quella cronologica o qualitativa che siamo abituati a pensare, ma che studiandola con più attenzione, ne coglie proprio la vera essenza. Questa breve formula lega la modernità alla crisi, in senso necessario, ovvero quando nel primo post parlavo del "brusio di fondo" per definire lo stato preesistente delle cose, che consente l'invenzione dello strumento, in maniera analoga, qui -questo brusio- è la crisi, e ciò che ne scaturisce -se realizza gli intenti della definizione- è modernità. Valore, morale contraddittoria, estetica di rottura, sono parole che evocano qualcosa che ha a che fare con le avanguardie, portatrici delle estreme conseguenze dei caratteri della modernità. Esse, partendo proprio da sentimenti di opposizione (all'individuata crisi) e sperimentazione (emblema di una ricerca non più affidata ai dogmi della tradizione, e che -per usare le parole di Renzo Piano- percorre sentieri mai battuti prima), hanno individuato (segnando probabilmente un punto di non ritorno) un elemento che, dai congressi del CIAM a oggi, è stato decisivo: il dinamismo, la dinamicità (in contrapposizione alla staticità) che è penetrata non soltanto nella "forma" delle cose, ma anche nella loro sostanza materiale e spirituale.

Se il dinamismo prendeva origine dall'avvento sistematico delle macchine nella vita dell'uomo e, da una mai raggiunta prima, velocità, allora oggi, partecipanti alla Terza Ondata (individuata dal futurologo Alvin Toffler) con la velocità, a stento immaginabile, dei software e con l'avvento di una nuova realtà, quella virtuale, allora il concetto di dinamismo acquisisce un nuovo vigore, probabilmente ancora non sperimentato a pieno. E come ricorda Patrik Schumacher scrivendo sulla natura delle avanguardie, questa "è quella di spingersi oltre a ciò che si conosce e di lanciare le proprie provocatorie proposte nel processo collettivo di sperimentazione in una forma ancora grezza, senza aspettare che l'intero ciclo di sperimentazione, variazione, selezione, ottimizzazione e perfezionamento sia completo e in grado di offrire risultati precisi e sicuri".

Se la definizione che oggi abbiamo di dinamismo (come intensa attività di movimento, trasformazione, rinnovamento) risente degli eventi di cent'anni fa (come detto precedentemente), questo argomento ha ben più lunghe radici, che arrivano sino all'universo greco. Esisteva infatti in esso, un vero mondo dinamico (confrontabile senza timori all'architettura contemporanea): non alludo (ovviamente) alle architetture greche, rimaste quasi immutate per diversi secoli (ad esempio Le Corbusier definiva il Partenone -oltre che macchina per emozionare- come variazione applicato allo standard), ma piuttosto punto l'attenzione al mondo della scultura. Ho in mente ad esempio il gruppo di Menelao che sostiene il corpo di Patroclo, piuttosto che al fregio dell'altare di pergamo, in cui i bassorilievi arrivano addirittua a diventare sculture a tuttotondo; in due soli esempi possiamo ammirare come il mondo ellenico si sentisse molto più libero -che in architettura- di investigare effetti dinamici, emozionali.

Tornando a periodi più vicini a noi, tra il 1916-30 si sviluppa il formalismo russo, all'interno del quale si muove lo scrittore Viktor Shklovsky che propone una poetica non più basata sulla mimesis, bensì sull'ostraneine (la defamiliarizzazione) il fare strano. Il fine del poeta sarà quello di combattere l'abitudine e la familiarità rendendo "strano" il "normale". Questo, reagisce a quello che è la standardizzazione della rivoluzione industriale, ma è insito un concetto interessante e sottilmente pericoloso: strano vuol dire non appartenente alla norma (da extraneus, estraneo), alla tradizione, che non viene riconosciuto come familiare, che dunque rompe le regole. Ma ci avverte, giustamente, la brillante Zaha Hadid che "non basta dire o fare qualsiasi cosa purché diversa dalla norma", ma la sfida alle abitudini, l'elaborazione di una scoperta, passa da analisi critiche, da serie investigazioni (magari come propone Tolstoj, estraniandoci, per descrivere oggetti e avvenimenti come se fosse la prima volta che si vedessero) e anche come procedono molti architetti delle avanguardie (come la stessa architetto irachena) attraverso disegni molto precisi.

sabato 14 marzo 2009

LO SPAZIO DI PETER PAN


La prima lezione del corso del Prof. Saggio è stata entusiasmante e -a livello personale- sorprendente. Sono rimasto sorpreso del fatto che -come in quei giochi enigmistici che consistono nel ricostruire una figura collegando dei punti numerati- alcuni pensieri già da me autonomamente sviluppati, non solo fossero presenti a lezione, ma hanno trovato anche un "inquadramento metafisico" raggiungendo una maggiore  chiarezza. Mi riferisco ad esempio alla ricostruzione storica del cannocchiale di Galileo, e soprattutto a Brunelleschi, al quale subito ho collegato l'avvento della prospettiva, avendone compreso quella enorme  rivoluzione (che Zevi aveva presentato, in un suo libro sulle sette invarianti dell'architettura, con una simpatica vignetta). E' evidente che l'invenzione di uno strumento forte come quello della prospettiva, fosse  figlio del brusio di fondo, di una preesistente elevata temperatura che alla fine incendia, e -come il fuoco- muta lo stato delle cose, conquistando la modernità di cui abbiamo parlato a lezione. Tra l'altro anche Le Corbusier accenna al problema dello strumento, asserendo che "lo strumentario dell'uomo scandisce le tappe della civiltà, l'età della pietra, l'età del bronzo, l'età del ferro". Prima di Brunelleschi e Galileo, però, si ebbe un altro passaggio fondamentale, come sempre originato dall'avvento di potenti strumenti: mi riferisco al mondo greco, che vorrei citare sia per completezza di argomento, sia, soprattutto, perchè l'elemento acquisito a quell'epoca, fa parte, ancora oggi, della nostra vita. Da un certo momento in poi, l'architettura greca cambia, percorre una strada nuova: tra il 447 e il 432a.C. viene realizzato il Partenone la cui "variazione" dal modello fondamentale del tempio, "variazione di uno standard" come la definisce Le Corbusier, ha risvolti fondamentali. Ictino scopre -e ce lo dona- lo spazio, ossia la terza dimensione, la larghezza. Prima di quel momento infatti ciò che contava in architettura era la semplice presenza corporea. E, come prima parlavo del "brusio", non è un caso che in quegli anni il sofista Protagora affermasse "l'uomo è misura di tutte le cose". Un'architettura a misura d'uomo comporta però che non esista un sapere assoluto, oggettivo, valido sempre e comunque, poichè misura perennemente variabile. Se per i greci lo spazio significava dunque porre al centro di esso l'uomo (con tutte le implicazioni filosofiche che ciò comporta), oggi invece potremmo dire che lo spazio è informazione (applicazione di una convenzione a un dato), tanto che si potrebbe affermare che  il modo diverso di avvicinarsi alle cose, le cambia. E come pure giustamente il Prof. Saggio scrive, lo spazio varia pure al variare delle diverse fisiologie e contingenze (quello percepito da diversi animali e quello percepito dall'alto, dal basso, da sott'acqua, ecc.) e come confermerebbe Husserl noi tendiamo a organizzare lo spazio in relazione al nostro corpo, come pure per Georges Perec (prendendo spunto da Aristotele) che nota come “Il nostro sguardo percorre lo spazio e ci dà l’illusione della distanza. E’ proprio cosi che costruiamo lo spazio: con un alto e un basso, una sinistra e una destra, un davanti e un dietro, un vicino e un lontano…”. 
Illustrato questo punto il titolo del post sembrerà più chiaro. Esso ha un duplice significato: da una parte denota la capacità propria di Peter Pan di volare, cioè di potersi muovere nello spazio, svincolato dal riferimento a un piano, acquisendo una quarta dimensione, che rivoluziona, come già detto, il concetto di spazio. Il secondo significato, si riferisce invece all'isola che non c'è, il non luogo per eccellenza e dunque l'utopia!
Riflettevo sul fatto di come l'emergere della crisi favorisca -a causa dell'instabilità, prodotta dalla critica alla tradizione e dal conseguente insorgere del dubbio e di incertezze- la formulazione di teorie utopiche. Ad esempio, lo sviluppo del concetto di stato proposto da Platone nella Repubblica, con risvolti senz'altro utopici, sorgeva dalla crisi della democrazia ateniese del V secolo, colpevole di aver ucciso l'amico e maestro Socrate. Così, anche nel momento delle grandi crisi del secolo scorso si svilupparono diversi manifesti e quindi movimenti, portatori di nuovi ideali. Anche quando nel clima della controriforma, tra dominazione spagnola e inquisizione, Campanella si assunse il compito di "debellare tre mali estremi" (tirannide, sofismi, ipocrisia), le sue idee "eretiche" produssero il modello utopico de "la città del sole". 
L'individuazione della crisi, dunque, non è soltanto il momento per sviluppare nuovi strumenti (e viceversa), ma è anche il momento favorevole per proporre visioni alternative -magari anche irrealizzabili- che altrimenti sarebbero assurde e improponibili, censurando la possibilità di immaginare mondi differenti, e universi paralleli. Insomma la crisi è non solo il momento in cui si analizzano le difficoltà ma anche un'imperdibile occasione per cambiare società, divenute ormai obsolete, gravose e insostenibili.

mercoledì 11 marzo 2009

Primo post

Credo che per cominciare sia bene innanzitutto salutare e presentarsi ... quindi buona sera a tutti sono uno studente (molto probabilmente come voi) della prima facoltà di architettura Ludovico Quaroni, di Roma.
La creazione di questo spazio virtuale è stata incentivata dal professore del corso Caad che sto seguendo e devo dire mi piace molto l'idea di avere questo confortevole luogo dove poter esprimere pensieri, riflessioni e magari riuscire a instaurare un qualche confronto con voi. Devo aggiungere che all'università è decisamente carente la possibilità (e a volte la volontà) di aprire un dibattito su alcuni temi, che sono ad esempio quelli che studiamo per cui magari sfruttando questo strumento informatico che riesce ad abbattere barriere di varie timidezze e che - implicando una formulazione scritta - consente l'elaborazione di pensieri meglio costruiti e più completi, sarebbe bello ci potessimo riuscire.
Spero dunque di riuscire a concretizzare (o reificare!) ciò che ho in mente di far diventare questo spazio; per adesso intanto vi invito un cyber-saluto e vi invito a presto.